EBBENE SI’, SONO MATTO!

“Dove pensi di partire per provare a vincere questa corsa?” mi ha chiesto qualcuno stamattina.

“Sulla salita del Monte di Sante Marie!” ho risposto io di getto.

L’ho vista, l’ho vista bene l’incredulità sulle loro facce. “Questo è tutto matto!” devono aver pensato.

“Ma…quest’anno la corsa è più lunga di quando l’hai vinta due anni fa: da lì mancheranno ancora ottanta chilometri all’arrivo, anche di più” mi ha detto qualcuno. Io l’ho lasciato dire e ho anche pensato che sì, aveva proprio ragione. Devo proprio essere matto! Però…però…non sarei quello che sono, se non fossi un po’ matto.

Li ho lasciati parlare, dicevo, ma poi ho fatto esattamente quello che avevo detto. Le ho viste, sì sì, le vostre facce quando proprio lì, in quel punto, ho deciso di accelerare salutando tutti. E se non le ho viste, comunque le ho immaginate. Facce stupite, incredule. Le ho sentite le vostre parole, li ho percepiti i vostri pensieri: “Questo è matto, dove vuole andare?” dovete aver detto. Ebbene sì, sono matto, ma eccomi qui già solo quando al traguardo mancano ancora decine di chilometri, due ore di fatica, un’eternità.

“Chi glie lo fa fare? Lo riprenderanno, andrà in crisi, lo staccheranno, perderà…” devono aver pensato alcuni di voi.

Ma io, testa bassa, a pedalare. E a crederci.

Ma poi ho sentito anche reazioni diverse. L’incredulità che diventa emozione, che diventa esaltazione. Eh sì perché le ho sentite le vostre urla mentre passavo lungo quelle salite fangose. Vi ho visti puntini colorati e urlanti a bordo della strada. E anche se vi sembrerà difficile crederlo ho percepito anche la vostra esaltazione sui divani di casa. Vi ho sentito che mi spingevate. Tutti.

Il mio vantaggio aumentava, ma era ancora lunga. La possibilità che avessero ragione coloro che mi consideravano folle c’erano, altro che. Col passare dei chilometri la fatica aumentava, le gambe diventavano dure. Ma forse anche quelle dei miei avversari, lontani di diversi minuti, erano così. E poi dietro in ogni tratto di sterrato, in ogni discesa, in ogni passaggio poteva celarsi qualche pericolo: lo sapete com’è la strada, no?

Ma i chilometri passavano. Il traguardo si avvicinava. Lentamente, ma si avvicinava. Conosco i nomi dei posti. L’ho già vinta, questa corsa. E poi la gente, tutta quella gente che ancora mi sosteneva e mi spingeva urlando lungo la strada.

Eccola là, infine, la città. Mancava ormai una manciata di chilometri e sapevo che solo un incidente o una caduta potevano fermarmi. “Devo fare attenzione! Devo fare attenzione!” mi ripetevo. E proseguivo. Testa bassa.

Eccomi infine ai piedi dell’ultimo tratto di cui ricordavo ogni singolo metro.

La gente. Tanta gente. Il boato che saliva. Aumentava. Metro dopo metro. E con esso la mia sublime felicità per avercela fatta, ed esserci riuscito così. Due ali di folla, e io un puntino solo li in mezzo. Finalmente potevo rilassarmi. Finalmente potevo sorridere al mondo: a quelli che avevano creduto in me fin dal primo momento, a quelli che mi avevano dato del matto. A tutti.

Il boato. Il traguardo. La mia bici sollevata verso la folla. La mia bici, quella che è la mia dolce compagna di giochi fin da quando da piccolo sfidavo gli amici per le strade del mio paese. Strumento di lavoro, sì certo. Ma anche dolce amica di sempre.

Il saluto alla folla.

L’esaltazione.

La gioia sublime.

I sorrisi. Adoro sorridere. Lo faccio sempre.

“Complimenti, oggi hai fatto un’impresa che ti farà entrare per sempre tra i grandissimi del tuo sport!” mi ha detto qualcuno alla fine. E se non me lo ha detto di certo lo ha pensato.

So che si tratta di cose importanti, chiaro. Ma a me non interessano poi così tanto.

Quello che mi interessa è divertirmi.

Quello che mi interessa ancora di più è far divertire voi.

Emozionarmi.

E sentire che vi emozionate con me.

Sono matto, mi dite? Sì lo sono.

Ma se non lo fossi non sarei quello che sono.

Se non lo fossi non sarei Tadej Pogacar.

E forse, dico forse, non mi amereste così tanto.

ARCOBALENO SU ROUBAIX- LA FOLLIA DI MATHIEU

Questo articolo avrebbe potuto tranquillamente essere scritto domenica scorsa, poco dopo la fine del Giro delle Fiandre. Con un gruppo di amici appassionati di ciclismo si diceva infatti che la questione non riguardava tanto se Mathieu Van der Poel  potesse vincere la Parigi-Roubaix di oggi, quanto il modo in cui ci sarebbe riuscito.

Con uno sprint ristretto nel Velodromo della cittadina del Nord della Francia? Con un assolo nel finale? O ancora con un attacco da lontano dei suoi?

Buona la terza! La “cosa”, l’attacco definitivo e mortifero insomma, è accaduta quando all’arrivo mancavano ancora una sessantina di chilometri dal traguardo (59,5 per i pignoli) in un tratto di strada apparentemente insignificante, in un momento in cui la corsa sembrava sonnecchiare dopo l’attesa bagarre avvenuta come di consueto nella Foresta di Arenberg e in attesa di altri tratti di pavé iconici come quelli di Mons-en-Pevele e del Carrefour de l’Arbre.

“Ma che fa? Dove va? E’ matto?” si sono chiesti in tanti.

“Troppo presto per partire!” avranno pensato altri.

Certo non Mathieu.  

Il momento perfetto. Facile parlare col senno di poi, ma tant’è. Forse per paura di essere in qualche modo messo in mezzo da gente come Mats Pedersen (do you remember Gent-Wevelgem?), Stefan Kung, o Nils Politt (che pure ci avevano provato in precedenza), o da qualche altro comprimario, l’Olandese ha deciso di rompere gli indugi, e di farlo proprio in quel momento. Troppo presto per tutti, o quasi. Non per Mathieu.

E così il vantaggio, prima esiguo, ha cominciato a dilatarsi: dieci secondi, che diventano venti, che diventano trenta, poi un minuto, poi due, quindi tre.

Fino al trionfo finale nel Velodromo, liscio e dolce contraltare di una gara vissuta per lo più saltellando con polsi e soprasella sugli sconnessi sassi di porfido che rendono questi luoghi un inferno per chi li affronta a cavallo di una bici. L’Inferno del Nord, appunto.

Non vedevamo una doppietta Fiandre-Roubaix dal 2013 (Fabian Cancellara). Ci voleva Mathieu!

Non vedevamo due vittorie consecutive alla Roubaix dal 2008-2009 (Tom Boonen). Ci voleva Mathieu!

Mathieu che, con la sua meravigliosa livrea arcobaleno addosso, diventa il secondo corridore della storia a vincere (anzi a stravincere, a stradominare, a cannibalizzare) sia il Fiandre che la Roubaix con il simbolo di campione del mondo sulle spalle. Lo fece, prima di lui, il grandissimo veltro fiammingo Rik Van Looy. Era il 1962: due vite e due generazioni fa, ai tempi in cui correva suo nonno Raymond Poulidor, detto Pou-Pou e Mathieu non era neppure un progetto lontano.  

E dietro l’Olandese? A tre minuti Jasper Philipsen completa il trionfo dell’Alpecin-Deceuninck regolando allo sprint il Danese Pedersen e il Tedesco Politt. Quinto lo Svizzero Stefan Kung.

Gli Italiani? Caduti e ritirati Elia Viviani e Jonathan Milan. Caduto e sparito dalla corsa Alberto Bettiol. Non pervenuti gli altri.

Qualcuno di quelli che la sanno lunga disse che la Roubaix è l’ultima follia del ciclismo contemporaneo.

E chi poteva vincerla, quindi, se non un meraviglioso folle come Mathieu Van der Poel?

RIPARTIREI DOMANI!

Quando la sveglia suona alle 6,00 la voglia di voltarsi dall’altra parte e continuare a dormire è tanta.

Specie dopo la giornata di ieri.

Che giornata pesante, quella di ieri! Un’ora di viaggio circa per raggiungere la zona della partenza. Le foto alla presentazione delle squadre sotto il sole che comincia a farsi sentire. Poi via, di corsa, un’ora e mezzo di viaggio per raggiungere le pendici della salita finale. Tempo per un panino e poi si cerca di raggiungere a piedi un punto interessante della salita in cui vederli passare. Ore di attesa prima sotto il sole cocente dei 2000 metri e poi sotto la pioggia che ha dato la sua benedizione. Ore ad aspettare per una manciata di minuti di esaltazione: qualche foto, tanti applausi e poi, in pochi minuti, tutto finito. Tutti noi, qui, sulla strada, ripieghiamo le nostre bandiere, riprendiamo i nostri zaini e giù, a piedi, in discesa lungo quella strada che prima noi a piedi, poi i Nostri Eroi in bicicletta, avevamo percorso in senso opposto. Finita la gara scendono in bici, facendosi strada con i fischietti tra la folla, i nostri Eroi : è il modo più veloce per raggiungere i loro pullman laggiù, e con essi i loro alberghi.

Giungiamo anche noi alla macchina. Giusto il tempo per dare un’ultima occhiata a queste montagne incantate che si specchiano nel lago, e via. Un’oretta di viaggio nel traffico per raggiungere la casa che ci ospita per queste due notti. Ci si prepara la cena. Scarico qualche foto nonostante gli occhi mi si chiudano, con l’ultima forza di volontà che mi rimane. E piombo in un sonno profondo e senza sogni, almeno senza sogni che la mattina riesca a ricordare.

Quando la sveglia suona alle 6,00, la voglia di girarsi dall’altra parte e di continuare a dormire è tanta, si diceva.

E invece alla fine ti alzi. Come uno zombie prepari la colazione. Guardi fuori, come già avevi fatto ieri, vedi che il tempo è buono e la cosa ti mette di buon umore. Non che tu sia particolarmente innamorato del caldo, anzi, ma sai che assistere a una corsa con la pioggia è assai peggio. Verso le 7,00 sei già in macchina pronto a partire. Due ore circa di viaggio per raggiungere le pendici della salita della cronoscalata di oggi. Qualche chilometro a piedi, quegli stessi piedi che già ieri sembrava non ce la facessero più, per raggiungere un punto buono in cui vederli su questa salita tremenda e in cui fare foto. Tanta gente che sale. I campioni che fanno la ricognizione. Ed ecco che arrivano i primi corridori in gara, ovvero gli ultimi della classifica generale. Un applauso per tutti. Una o più foto per ognuno, almeno per quanto mi riguarda. Non c’è campo, qui, maledizione! Non mi sarà possibile inviare le foto e i filmati come avrei voluto, ma non posso fare altro che farmene una ragione. Intanto continuano ad arrivare corridori: applauso, foto. Un panino consumato durante la pausa nei passaggi. Quindi ancora corridori su corridori, alcuni conosciuti, altri mai sentiti nominare o quasi.

Continua ad arrivare gente di diversa nazionalità e di livelli diversi di sobrietà. La folla urla ad ogni corridore che passa, il volume delle grida sale di livello ed aumenta sempre più, finché non arrivano prima l’asso di casa (anche se non si corre esattamente al suo paese, ma è come se), poi il leader della classifica. Sono qui da circa sei ore ma quasi non me ne sono accorto tanta è l’adrenalina che ho in corpo. La voglia di fotografare. La voglia di applaudire. La voglia, giustappunto, di essere qui. Quella stessa voglia che non mi fa mai sentire la fatica, che pure è tanta dopo tre giorni consecutivi da suiveur (eh sì, perché c’è stato anche l’altro ieri con tanto di viaggio in auto di 600 chilometri per portarsi in zona).

Quando passa il leader della classifica la festa, all’improvviso, finisce. Come ogni volta si ripiegano le bandiere. Come ogni volta si riprendono gli zaini. Come ogni volta ci si unisce al serpentone di folla fino a raggiungere l’automobile.

Si arriva all’albergo dopo aver sbagliato strada che sono le otto (e davvero pensavi di metterci più tempo). Devo ancora mangiare, fare una doccia, scrivere il pezzo che ho deciso di scrivere, scaricare le foto della giornata. Il tutto prima di potermi concedere qualche ora di riposo.

Domani niente corsa, ma altri seicento chilometri di strada per tornare a casa.

Sento di aver bisogno di riposare almeno qualche ora ed è quello che farò.

Ma sento anche che, se domani ci fosse una corsa che mi interessa, metterei da parte la stanchezza, infilerei la mia “reflex” nello zaino, prenderei la mia auto, e ripartirei immediatamente!

HO SENTITO LA MONTAGNA URLARE

Monte Lussari (UD) – Capita a volte di sentire la montagna urlare. Lei, di solito regno di quelli che all’orecchio distratto appaiono sovrumani silenzi, ma che sono in realtà fatti dalla musica ora dolce, ora potente della Natura.

L’ho sentito più volte, l’urlo della montagna, nella mia ormai ahimé lunga, troppo lunga, vita di suiveur. Al Giro come al Tour. Soprattutto al Tour, quando, sui passi alpini o su quelli pirenaici, lo senti salire dalle pendici del monte. Sventolio di bandiere. E l’urlo sale, alla stessa velocità con cui si muovono gli Eroi del pedale. Sale e percorre i tornanti e i rettilinei che si susseguono, uno dopo l’altro come un enorme serpentone dalle spire di asfalto.

L’urlo sale. Si avvicina. Piano piano. Inesorabile. Fino ad arrivare a noi e a far diventare noi stessi, con le gambe tremanti ed il cuore che batte forte, parte di quell’urlo. Se ne va in fretta, l’urlo. Ma ne arriva un altro poco dopo. E dopo ancora. Fino che tutto non torna come prima: la montagna, con i suoi silenzi, veri o presunti.

Ho sentito, dicevo, tante volte la montagna urlare. Quando correva Pantani e scattava seminando le facce sfatte degli avversari e distribuendo classe sopraffina e poesia. Quando correva Nibali. Quando correvano tanti grandi del passato. Ma poche volte ho sentito urlare la montagna come è accaduto oggi sulle pendici di quel calvario di cemento che ci raccontano si chiami Monte Lussari. La montagna ha urlato per tutti, come è buona norma nel ciclismo. Ma c’è stato un momento in cui l’urlo è diventato letteralmente sovrumano: Primoz Roglic, vestito per il momento di giallo, spunta là in fondo, sotto quel tornante. Sventolano le centinaia bandiere tricolori blu, bianche e rosse con il simbolo del Monte Tricorno! Suonano le trombette. Centinaia, anzi migliaia di bocche si aprono e si uniscono nell’urlo che sale, sale per tutta la montagna. E aumenta se possibile ancora di tono, a mano a mano che le notizie arrivano e parlano di Primoz che guadagna sul suo valoroso rivale, quel Geraint Thomas che alla fine deve arrendersi pur lottando come un leone fino allo sfinimento.

Deve arrendersi alla superiore agilità del rivale.

Deve arrendersi all’urlo della montagna che si unisce a quello di un intero paese, la Slovenia, che oggi sembra essere venuta in massa qui sulla montagna, E chi non è qui urla nelle case, nelle piazze, nei bar.

Perché Primoz stavolta non si è fatto beffare come troppe volte è accaduto in passato.

Perché Primoz stavolta ha saputo mettere d’accordo le gambe con la testa.

Perché Primoz stasera e domani potrà festeggiare in maglia rosa per se e per tutto il suo popolo.

Quel popolo che oggi ha urlato sulla montagna spingendolo alla vittoria forse più importante della sua carriera.

Quel popolo che oggi mi ha regalato una delle emozioni più belle da quando seguo questo sport meraviglioso.

Ho sentito urlare la montagna.

Così forte come poche altre volte mi era accaduto.

Per Primoz.

E sono certo che l’emozione che quest’urlo mi ha regalato resterà nelle mie orecchie e nel mio cuore.

Da oggi e per sempre.

LA FOTOGRAFIA (I mondiali del 2018 e il Pata)

Oggi.

Guardo la fotografia. L’uomo barbuto con la maglietta a strisce orizzontali, gli occhiali granata, tanti braccialetti in primo piano. L’uomo con i capelli corti e la maglietta verde dietro. Una macchinetta conta soldi. Un sacchetto con degli elastici. Mucchietti di banconote sparsi ovunque. Un cellulare con una striscia verde che sembra tanto, che sembra tanto….

Venerdì 15 giugno 2018. Genova. Una piccola filiale di una grande banca.

…Un campo di calcio!

E su di esso minuscoli puntini bianchi e rossi inseguono qualcosa che risulta totalmente invisibile, ma che noi immaginiamo sia un pallone.

Egitto ed Uruguay sono scesi in campo da circa mezz’ora e si affrontano in quella che è la seconda partita di questo Mondiale iniziato ieri sera con la netta vittoria dei Russi per 5 a 0 contro l’Arabia Saudita. Una partita, quella di oggi, che certamente non entrerà nella storia di questo Mondiale, ma al cui dubbio fascino noi non abbiamo saputo resistere, anche se dovremmo essere qui solo per lavorare. In fondo, però, che danno facciamo alla Nostra Grande Azienda se, di tanto in tanto, smettiamo di contare banconote per dare un’occhiata e capire se la “Celeste” di Oscar Washington Tabarez riuscirà ad avere la meglio o meno sugli Egiziani, in cui Salah se ne sta in panca e invece gioca tale Trézéguet, che di quel Trezeguet là, quello del golden gol, non è manco lontano parente? Che danno facciamo alla nostra azienda se impiegheremo qualche minuto in più per finire ‘sto benedetto lavoro?

Noi. Ovvero il Pata ed io. Il Pata, che in realtà si chiama Alberto, ha qualche anno meno di me ed è un ultrà del Doria di quelli duri e puri. Lo conobbi in ufficio qualche anno fa ed entrammo quasi subito in sintonia ma poi, come spesso accade nel nostro cavolo di lavoro, un giorno gli dissero che sarebbe dovuto andare a lavorare da un’altra parte e così “Ciao Ciao Pata”.

Ciao Pata, almeno fino a che….

“Facciamo la Rivoluzione!” gli scrissi poco dopo che, incazzato come una iena, seppi che mi avrebbero mandato a lavorare in quella filiale . Incazzato come una iena, sì sì. Ma poi pensai che in quel posto ci lavorava anche lui, e allora il pensiero mi divenne subito più lieve. O meno pesante.

Rivoluzione magari no. Ma comunque adesso eccoci qui. Fianco a fianco. Spalla a spalla. A lavorare, certo. Ma anche a seguire i Mondiali.

“Chi li vince i Mondiali, Walteroneee?”

“L’Italia….ah no!” dico sogghignando e pensando alla figuraccia della Nazionale dell’odiatissimo Vate Ventura contro la Svezia. E tutti a casa alè, tutti a casa alè. Con buona pace di coloro che avevano definito come “L’Apocalisse” una possibile eliminazione, e di quelli secondo cui “Senza Italia che Mondiale è???”. E invece eccolo lì il Mondiale.

“Dai che facciamo una bella martingala sulle prime quattro!”

“Le favorite sono più o meno quelle che sappiamo. Vabbeh dai. Ci penso e ti dico. Qué piensas, Gina?” dico rivolgendomi alla signora delle pulizie di nazionalità ecuadoriana e di fede milanista.

No sé…non so…il mio Ecuador non c’è, dunque spero una Sudamericana: Argentina? Brasile? Ma anche la Francia, l’Espana o quell’Alemania che non molla mai…” mi risponde lei.

“Ti volevo ancora chiedere una cosa, ma non ti offendere…” mi dice ancora il Pata.

“Cosa?”

“Dici sempre che scrivi. Ma che cazzo scrivi?”

(Gina intanto se la ride).

“Scrivo di…boh…sta di fatto che se un giorno mai scriverò di questi Mondiali inizierò parlando di noi due là dentro con i soldi. E di Egitto-Uruguay.

Mi guarda con l’espressione di uno che forse ha capito, o forse no. Sicuramente di chi mi considera mezzo matto. Cosa vera, peraltro.

Intanto il nostro lavoro va avanti. Così come la partita che scorre sullo sfondo. L’Uruguay fa una fatica immane, ma al novantesimo riesce a sbloccarla con un gol di Gimenez. 1 a 0 per la Celeste e tutti a casa.

E tutti a casa anche noi, sì, che è venerdì, devo andare a prendere Paola al centro estivo e portarmela sui miei monti.

“E tu che fai, Pata, nel fine settimana?”

“Vado a recuperare la mia Mati e poi vediamo. Magari domani la porto al mare. Oh Walteroneee, sai che tra un anno esatto mi sposo con Lara?!? Tienti libero eh…”

“Minchia, allora stavolta fai sul serio!”

“Aleeegri!” mi dice sorridendo col suo classico intercalare.

Come a volte capita non so se sia serio o se mi stia prendendo per i fondelli, ma nel dubbio un puntino sul calendario lo metto.

“Vabbeh buon fine settimana, Doriano di merda! A lunedì” lo saluto io.

“Buon fine settimana, Granata schifoso!” mi risponde lui.

A questo punto posso andarmene in montagna davvero.

E i Mondiali possono tranquillamente continuare!

Due settimane dopo. Stesso luogo. Stessa ora.

“Walteroneee, tira fuori dieci euro!”

Con la faccia un po’ stupita metto mano al portafoglio e faccio per aprirlo.

“Uruguay-Francia?”

“Francia! Hai visto come hanno fatto fuori l’Argentina?”

“Ok, Francia!”

“Brasile-Belgio?”

“Brasile, anche se…”

“Dai….però….vuoi dire che…Ok! Belgio!”

“Russia-Croazia?”

“Croazia! Anche se i Russi hanno fatto fuori la Spagna e i Croati hanno faticato tanto contro la Danimarca”

“Io dico Russia. Non giochiamola.”

“Svezia-Inghilterra?”

“Inghilterra senza dubbio!”

“Sì, Inghilterra!”

“Ti rifaccio la domanda: chi li vince i Mondiali, Walterone?”

“La Francia che ho visto contro gli Argentini li vince senza se e senza ma!” gli rispondo deciso.

“Altri dieci euro?”

“Ma no, è data bassa, lasciamo stare!”

E’ di nuovo venerdì pomeriggio. Tempo di pensare al fine settimana e alle nostre ragazze. Ma prima…

“A proposito di Francia: tra pochi minuti scende in campo contro la Celeste di Tabarez. Non ce la faccio ad arrivare a casa, quindi vado a vederla nel bar qua vicino dove la danno. Vieni?”

“No Walterone, devo andare a prendere Mati”

“Va bene, allora me ne berrò una alla tua salute, una a quella del Compagno Tabarez e una a quella di quel gobbaccio di Deschamps”.

E così faccio mentre al quarantesimo segna Varane. E così faccio quando nel secondo tempo raddoppia Griezmann. 2 a 0 dei Blu contro i Celesti e via.

“Chapeau!” scrivo al mio amico francese. E aggiungo: “Quest’anno è vostra!”

Non oso immaginare dove si starà portando le mani in questo momento.

Ma è quello che penso davvero.

Sarà difficile, molto difficile che qualcuno riesca a fermare questa Francia che unisce il talento di Mbappé, di Pogba e di Griezmann davanti, alla impenetrabilità di una difesa formata da gente come i colossi Varane e Umtiti. Ma vedremo. Tra poco più di una settimana sapremo.

Mentre me ne torno a casa penso che stasera sarebbe bello poter vedere anche l’altro quarto di finale, quello che contrappone il Brasile gonfio di gloria ma reduce dalla brutta figura ai Mondiali casalinghi di quattro anni fa, al il giovane ed entusiasta Belgio.

Qualcuno da qualche parte, però, ha deciso di no, visto che stasera si deve fare una pizzata con i compagni di classe di Paoletta. Così niente partita. Niente di niente. Ma una lunga attesa al caldo e tra bambini urlanti per delle pizze che sembrano non arrivare mai.

Per fortuna, poco più in là, c’è un televisore e io posso vedere le due squadre che si schierano lungo la linea di centrocampo per ascoltare e cantare Patria Amada Brasil e la multilingue Brabançonne.

Si inizia a giocare. Tredici minuti e il Belgio passa su autogol. Poi raddoppia con quel “tacchino freddo” di De Bruyne, solo omonimo del vincitore di tante classiche ciclistiche negli Anni Cinquanta, da me incontrato tanti anni fa all’arrivo di una Milano-Torino. Nel secondo tempo, il Brasile accorcia con Augusto, ma non basta.

Brasile a casa e gloria al Belgio che se ne va in semifinale come nel lontanissimo 1986 (me lo ricordo bene, ahimé!).

All’epoca contro l’Argentina di Maradona.

Stavolta contro la Francia che allora era di Platini e adesso è di tanti.

“Pata, hai visto, abbiamo beccato pure il Belgio!”

“Alegriii” risponde semplicemente lui, che immagino festeggiare con una birretta.

“Alegri” penso anche io. Finalmente la pizzata è finita e me ne posso andare sui miei monti.

Ed è sui miei monti che vedo l’Inghilterra far fuori nettamente la Svezia.

Ed è sui miei monti che vedo la Croazia eliminare la Russia ai rigori, dopo un 2 a 2 in campo (“Che ti avevo detto, Pata?”).

Intanto è iniziato pure il Tour de France. Ma di quello parlerò un’altra volta.

O magari dopo, se mai.

Domenica 15 luglio 2018. Tardo pomeriggio. Fenils, Alta Val di Susa.

“Chi vince, papà? La Francia o…”

“Vince la Francia!” dico sicuro rivolgendomi alla mia piccola che, per la prima volta in vita sua, sembra interessarsi a qualcosa che non siano i cartoni animati.

Intanto sul piccolo schermo della mia piccola Tv, Pogba and company cantano Allons enfants.

Non siamo soli, Paoletta ed io.

Ci sono anche i miei perché a casa loro la Rai non si vede, e perché comunque questa finale dei Mondiali avevamo piacere di vederla insieme. Insieme come molte altre volte, come molte altre finali vissute in passato. Guardo Paoletta, alla sua prima volta “da cosciente” (otto anni fa non c’era ancora, e del 2014 non ricorda nulla) e rivedo il me a otto anni, la TV in bianco e nero dei miei nonni, bianco grigi contro grigi, che poi era biancazzurri contro arancioni, che poi era Argentina contro Olanda. E sappiamo come finì e in quali circostanze si giocò.

Guardo mamma. Qualche mese fa pensavamo di averla persa, non in senso fisico, ma comunque persa. E invece eccola lì. Guarda la TV, sorride, se la prende con le mosche noiose che non se ne vogliono andare. Cazzia mio padre. Che bello. Che gioia essere qui. Insieme. Ancora una volta.

Intanto Allons enfants è diventato Aux armes citoyens e la partita può cominciare.

La Francia, che in semifinale ha battuto il Belgio con non poche recriminazioni da parte dei “Diavoli Rossi”, passa in vantaggio su autogol dopo circa diciotto minuti. Ma per i Croati guidati da Modric risponde l’Interista Perisic. Poi è la volta di Griezmann che riporta in vantaggio i Galletti su rigore. Quindi Pogba e quel Dio del calcio di Mbappé sembrano chiudere definitivamente la partita portandola sul 4 a 1 per “les Bleus”. Mandzukic fa il 2 a 4 e finisce così.

POUR LA GLOIRE DE LA FRANCE!

Penso ai miei tanti amici d’Oltralpe.

Penso a quello che, in questo momento, sta accadendo solo pochi chilometri più in là, oltre quelle montagne che si vedono fuori dalla finestra. Là c’è la Francia. Là c’è la Festa. Là ci sono i Campioni del Mondo.

Hanno meritato? Io dico di sì, anche se non tutti sono d’accordo. Qualcuno, specie tra gli “opinionisti della rete” se la prende col “non gioco” di Deschamps accusandolo di essere troppo catenacciaro. Mi viene da ridere. Siamo stati noi, intesi come Italiani, a insegnare al mondo che a calcio, specie se si vuole vincere, si può giocare anche difendendosi bene e ripartendo in velocità. E ora che anche altri hanno imparato a loro volta la lezione, ce la prendiamo con loro accusandoli. Capisco che non sia facile accettare sportivamente di vedere gli altri vincere alla maniera nostra, specie quando si tratta di avversari storici. Specie quando si è costretti a guardarli da lontano e dalla finestra. Ma non è colpa mia se in Italia non nascono più talenti come Pogba, Griezmann e Mbappé. Non è colpa mia se la Nazionale si è affidata a un mediocre imbolsito come Ventura nella speranza che la portasse ai Mondiali. Non è colpa mia se, calcisticamente, ci siamo così imbrocchiti e avviluppati nella nostra supponenza. No. Non è colpa mia.

Ma adesso vorrei andare a riposare che domani, anzi no, una cosa ancora la devo ancora fare.

“Pata, cosa ti avevo detto?” gli scrivo.

Mi manda faccine sorridenti. Forse abbiamo vinto anche dei soldi.

Ma ora, come dicevo, lasciate che vada a riposare.

Che domani, là in Francia, a casa dei nuovi Campioni del Mondo, ci vado pure io!

Martedì 17 luglio. Col de Romme. Alta Savoia. Francia.

“Allezzzzz Lou-Louuuuuuu!” gridano quei signori con le bandiere della Bretagna e della Francia laggiù.

“Allezzzzzz Lou-Louuuuuu!” gridano tutti.

“Allezzzzzz Lou- Louuuuuu!” grido anche io.

Julian Alaphilippe, ventisei anni, di Saint-Amand-Mondrond, Cher, Francia è solo. La gente, tutta la gente, lo incita, lo spinge con la voce, se potesse lo farebbe anche a forza di braccia. Tutti. I Francesi come lui, certo. Ma anche coloro che, fino a qualche ora prima, dei Francesi avrebbero detto peste e corna. Perché in quel momento Lou-Lou (come chiunque al suo posto) non ha più colori, non ha più bandiere. La fatica e la sofferenza sono di tutti. A ognuno di noi è accaduto, prima o poi, di incontrarle nella vita. Senza differenza di nazionalità.

“Allez Lou-Lolouuuuu!” certamente.

Ma anche “Allez Rein!” per l’estone Tarramae.

E ancora “Aupa Ion” per il basco Izagirre.

“Allez Greg!” per il fiammingoVan Avermaet.

“Go Geraint!” per il gallese Thomas.

“Allez Tom!” per l’Olandese Dumouin.

“Forza Enzoooooo!” per il nostro Nibali (e lì, certamente, urlo un po’ di più).

Manca solo il “Go Chris!” per Froome, che viene accolto, purtroppo, dai “buuuu” della folla. Perché è Froome. Perché la gente pensa, o è stata portata a pensare, che lui non vada, diciamo, solo a pane ed acqua. Lo dico io “Go Chrissssss!”. Ben forte. Perché quando lui passa, davanti a me scorrono le immagini di quel giorno di un paio di mesi fa al Giro d’Italia. Lui che parte sul Colle delle Finestre. Lui che stacca tutti e se ne va da solo. Lui che vola e che da solo arriva trionfante sullo Jaffereau, dove io lo aspetto per applaudirlo e per immortalare con la mia Reflex una delle più grandi imprese del ciclismo degli ultimi anni. Una delle più grandi imprese sportive cui abbia avuto la fortuna di assistere dal vivo.

E quindi “Allez Chrissssss!” lo dico ancora più forte. E me ne sbatto altamente dei “Buuuu” degli altri!

Quando sono passati tutti (perché bisogna applaudirli tutti, fino all’ultimo!) mi volto verso destra e vedo un capannello di persone. Capisco immediatamente il motivo per cui si trovano lì. Non è un posto dove regalano la roba o la vendono scontata, no. Non c’è qualche bella donna in abiti discinti da vedere, no. Ma c’è la cosa che, in questo momento, per chi è qui, appare come la più importante in assoluto: una televisione che trasmette le immagini della corsa!

Ed è lì che vedo Lou-Lou Alaphilippe che si invola da solo. Che si mangia in solitudine il Col de la Colombière, ultima asperità di questa tappa. Fino a tagliare il traguardo tra le urla della folla.

E sale alto l’urlo della montagna. E suonano i clacson. E si sente ancora…

“Champion du Monde! Champion du Monde! On est Champion, Champion du Monde!”. Ora magari il buon Lou-Lou, un giorno non lontano, campione del Mondo di ciclismo lo diventerà davvero (1), ma per ora si è “limitato” a vincere questa tappa, pure importante, del Tour de France.

Ovviamente la gente che canta non si riferisce a lui,

Ma ai Campioni del Mondo del calcio, ça va sans dire.

Quelli che hanno fatto sognare la Francia.

Quelli che l’hanno fatta scendere in piazza, ebbra, a festeggiare.

Quelli che hanno fatto sì che la notte scorsa sia stato difficile anche per noi prendere sonno nel bellissimo prato in cui ci siamo accampati con la tenda.

Perché c’era chi ancora festeggiava.

Perché c’era chi ancora cantava.

Perché c’era chi ancora sparava i fuochi d’artificio avanzati dal Quatorze Juillet e dalla notte scorsa.

E non aveva voglia di dormire, cosa per cui ci sarebbe stato magari tempo nei prossimi giorni.

E noi lì. Con la nostra tenda. E intorno a noi solo festa. E Francia.

La festa del ciclismo, invece, per ora è finita.

C’è chi decide di fermarsi con la tenda o col camper sul posto.

C’è chi, e lo capisci dall’espressione rabbuiata, sale sul proprio mezzo per raggiungere in serata, o domani chissà, la propria abitazione e con essa le proprie attività abituali: la festa per ora è finita, purtroppo, se ne riparla, forse, il prossimo anno.

C’è chi, e lo capisci dal sorriso ma anche dalla fretta che ha di andarsene, si mette in viaggio per seguire la prossima tappa, o quella del giorno dopo.

Tra questi ci siamo anche noi. Che ci mettiamo in viaggio subito. Ci illudiamo inizialmente che la strada sia libera, salvo poi rimanere bloccati sulla strada per ore. Arriveremo a destinazione in tarda serata, distrutti dalla stanchezza, ma contenti. Ci saranno altre tappe da seguire. Domani. Dopo domani sulla mitica Alpe d’Huez.

Poi a casa anche noi. A casa. Ai nostri impegni. Al mio lavoro, dove mi aspetta il mio amico Alberto cui racconterò del Tour. Con cui parlerò di calcio. Con cui sogneremo un futuro in cui non ci sarà più un ritorno al lavoro, ma recupereremo la nostra libertà. Di vivere. Di sognare, cosa che però nel frattempo faremo lo stesso come sempre.

“Walteroneeee, promettimi che un giorno mi spiegherai cosa ci trovi di bello nel ciclismo e nell’andarlo a seguire sulla strada”

“Te lo prometto, Pata. Un giorno te lo spiegherò. O magari, meglio ancora, ti porterò con me sulla strada. Un giorno…magari…”

Domenica 10 marzo 2019. Sera.

“Walteroneeeeee….Alegriiiiiii!”

Guardo il cellulare e vedo la sua “schedina” settimanale. Quella che gioca sempre e per la quale, qualche volta, mi ha chiesto un contributo. Mai vinto niente, io (a parte ai Mondiali). Vinto tanto stasera, lui.

“Grandeeeee! La prossima volta gioco anche io!”

“Siiiii, cazzooooo!” mi scrive ancora lui.

Vorrei scrivergli “ne parliamo domani in ufficio”, ma non sarà così, visto che da qualche mese ha cambiato pure lui sede e non lavoriamo più insieme. Niente più lavori insieme. Niente più partite viste insieme. Almeno per ora. Magari un giorno, chissà, chi può dirlo? In fondo ai prossimi Europei manca ancora più di un anno. Per non parlare dei Mondiali….

Giovedì 14 marzo 2019. Ore 16,30 circa.

“Ragazziiiiii, è morto Alberto!!!!” urla una collega piangendo disperata.

“Ma cosa stai dicendo?!? Cosa cazzo stai dicendo?!? Che razza di scherzo è mai questo?!?” urlo a mia volta.

Capisco dalla faccia della collega che non è uno scherzo. Non lo è per niente.

Un infarto del cazzo, mentre si trovava a casa con la compagna che avrebbe dovuto sposare tra tre mesi, ce lo ha portato via. All’improvviso. Così. Come se niente fosse. E tu che solo ieri, al telefono, gli avevi detto “ci sentiamo domani” rimani lì, inebetito, senza energie

Intorno a te facce sorprese, facce sconvolte. Gente che almeno si sfoga piangendo. Tu niente. Sei lì. Immobile. E non ti rimane neppure l’energia che ti servirebbe per piangere.

Sabato 16 marzo 2019. Tarda mattinata.

Ci provo ancora al funerale.

“Pata esci di lì, cazzo! E dicci che è tutto solo un cazzo di scherzo! Uno scherzo di merda, ma uno scherzo” cerco di dire guardando quella cassa da morto avvolta nella bandiera con i colori del tuo cuore.

Ma niente! Non succede niente! Niente di niente!

E tu cominci a realizzare il fatto che è finita lì. Per sempre.

E che con Alby, col caro Pata, non potrai parlarci mai più.

Forse.

Oggi.

Guardo ancora la fotografia, persa e poi per fortuna ritrovata. Ci sono io, in primo piano, che cerco di scattare un selfie (visto il risultato capisco che certe cose sarebbe meglio lasciarle fare ai giovani, e non ai vecchi di merda come me). Dietro di me, in maglia verde, c’è Alberto, il Pata. Sul banchetto alla nostra destra c’è il suo cellulare con una banda verde che solo noi due sappiamo essere sintonizzato su Egitto-Uruguay dei Mondiali di Russia 2018.

Mi rendo conto che, guardandola, mi stanno venendo le lacrime agli occhi per la commozione. Quanti ricordi, Pata! Quanti ricordi belli: quella volta che facesti lo striscione dedicato a me, quella volta che dovevi andare a Torino a una riunione, e invece…, quella volta che non venisti alla cena con i colleghi, perché…, quella volta che eri sparito dall’ufficio perché…. Quanti ricordi, madonna mia!

Poi le lacrime lasciano il posto ad una specie di sorriso, amaro certo, ma sempre di un sorriso si tratta. Quante cose ci siamo detti, Pata, nel tempo che abbiamo avuto a disposizione. Quante cose! E quante ce ne saremmo dette ancora, se solo ce ne fosse stata data la possibilità. Ti penso spesso, sai? E mi capita anche di parlarti. Di calcio, certo. Ma non solo. Di politica, anche. E di cose di lavoro. Ti ho parlato della pandemia. Della guerra in Ucraina. Del risultato delle recenti elezioni in Italia, anche di questo ti ho parlato. Ho persino provato a spiegarti il ciclismo come ti avevo promesso. Cioè io ti parlo e poi mi chiedo che cosa avresti pensato della cosa che ti sto raccontando, e se chiudo gli occhi mi sembra di sentire davvero la tua voce che mi dice che cosa pensa.

Walteroneeeeeee….alegriiiii” mi dici.

E se lo sento mi viene da sorridere ancora di più.

Chiudo il cellulare e lascio perdere la foto. Magari la riaprirò la prossima volta che avrò voglia di parlare un po’ con te.

Faccio per allontanarmi. Poi, all’improvviso, mi fermo. Torno sui miei passi. Cerco il mio computer. Apro word. Inizio a scrivere, a scrivere, a scrivere.

Walteroneeee, dici che scrivi, ma che cazzo scrivi?”

Pata, non ti so dire bene di che cosa scrivo di solito, ma riguardo a stavolta lo so eccome!

Perché questa volta, caro Alby, Pata mio, ho deciso che scriverò di te!”

(1) Nel 2020 a Imola e nel 2021 a Lovanio. Oh oui!

A COSA PENSI, REMCO?

A cosa pensi Remco?

A cosa pensi durante quei tanti chilometri che ti separano dal punto in cui ti ritrovi solo al comando della corsa più importante del mondo, a quello in cui tagli il traguardo sempre totalmente, perfettamente solo?

Quasi un’ora di tempo per pensare.

Dunque, a cosa pensi?

Pensi a pedalare più forte che puoi, certo.

E poi? A che altro?

Pensi al momento in cui hai staccato tutti i tuoi rivali?

Pensi al vantaggio che hai su di loro?

Pensi a come sarà bello il trionfo, visto che credo che tu non prenda manco lontanamente in considerazione la sconfitta?

O ancora, pensi a quando imparasti a pedalare senza ruotine da bambino? Qualche caduta, certo, ma poi volasti via…come adesso.

A quella volta che ti fotografarono con la maglietta e il cappellino da campione del mondo?

A quando iniziasti a dare i primi calci su un campo di pallone?

A quando esordisti nella nazionale giovanile che rappresenta il tuo paese?

Pensi a quando decidesti di smettere col calcio e abbracciare un nuovo sport bellissimo che alterna il rumore della strada a lunghi silenzi: questo?

Pensi alle tue prime vittorie in bici quando eri poco più che un ragazzino?

All’occasione in cui, per la prima volta, indossasti la maglia più bella, quella con i colori dell’arcobaleno?

E poi? Sono certo che pensi anche a quella volta, un paio d’anni fa, in cui ti raccolsero mezzo morto giù da un burrone, la tua vita appesa a un filo, altro che carriera!

E al lungo recupero nei mesi successivi? Alle tante incertezze?

E alle prime sconfitte dopo il tuo rientro ci pensi? Alle tante critiche ricevute, alcune giuste altre un po’ troppo affrettate?

E a quelli che hanno sempre avuto fiducia in te?
E a quelli che invece non ci avevano mai creduto e che ora dovranno rimangiarsi i loro giudizi?

E ai tuoi rivali? Ai tuoi avversari? A quelli che adesso si dibattono laggiù, sconfitti. Inesorabilmente. Senza scuse. Senza appello.

Ci pensi, Remco?

Tra poco sarai là. Su quel palco. Con quella maglia che hai sempre sognato. Ad ascoltare il tuo inno. A cantarlo insieme alla tua gente.

Ci pensi, Remco a quanta gente è rimasta sveglia tutta la notte o ha puntato la sveglia presto qui in Europa e che adesso ti sta spingendo con tutte le forze che ha, nelle tue Fiandre ma non solo?

Ci pensi, Remco, a che numero pazzesco stai facendo?

Un numero che ti farà entrare nella storia di questo sport meraviglioso, che ha sempre tanto, tanto bisogno di Eroi.

Eroi come te, Remco.

Che, senza pensarci troppo, decidono, partono, vanno, vincono.

Ci pensi, Remco, a chi sei per noi suiveurs?

Un Campione, certo.

Un Fenomeno, senza dubbio.

Indistruttibile. Bellissimo. Fortissimo.

Un Eroe, appunto.

Da guardare a bocca aperta rimanendone estasiati ogni volta che fa qualche nuova impresa.

Da applaudire fino a spellarsi le mani.

Da amare.

Senza timore di rimanerne delusi.

Senza confini.

Senza limiti.

Semplicemente.

MON TOUR

Giovedì 14 luglio 2022. Mattina. L’Alpe d’Huez.

1997: Marco Pantani

1999: Beppe “Turbo” Guerini

2001: Lance Armstrong

2003: Iban Mayo (Eus)

2004: Lance Armstrong

2006: Frank Schleck

2008: Carlos Sastre

2011: Pierre Rolland

2013: Christophe Riblon

2015: Thibaud Pinot

2018: Geraint Thomas

Undici volte. E io c’ero sempre. Ci sono sempre stato. Tanto che a volte mi capita di pensare che la tappa del Tour con arrivo dell’Alpe d’Huez non potrebbe svolgersi senza la mia presenza.

E oggi? Che accadrà?

Personalmente non vedo l’ora di scoprirlo, specie dopo le emozioni meravigliose che ci sono state regalate dalla tappa pazzesca di ieri.

Ma adesso, emozionato come o forse più di un bambino, vado a godermi questa giornata di ciclismo. Di avventura. Di strada.

Che bella l’Alpe d’Huez, che bello il Tour, che bello il ciclismo!

Giovedì 14 luglio 2022. Sera. L’Alpe d’Huez.

Ho sempre adorato, quando possibile, fermarmi la sera nei luoghi in cui è arrivata la tappa del giorno.

Osservare, mentre il sole va a dormire, la gente colorata che lentamente sfolla e raggiunge le proprie auto, i propri camper, i propri alberghi, le cabinovie.

Bandiere ripiegate.

Palchi e transenne che vengono smontati.

Tende emerse copiose nei giorni precedenti che spariscono.

Biciclette che scendono come sciami di insetti dai mille colori lungo la strada.

Auto e camper che si mettono in moto affrontando una lunga coda e un viaggio più o meno lungo, verso le loro dimore, o continuano ad inseguire il sogno di nuove tappe.

E la tanta gente che, come te, ha scelto di rimanere continua ad intonare qualche coro come ieri, ma meno festoso, perché ha dentro la tristezza delle belle cose che sono finite. E torneranno, magari, ma chissà quando.

Cala l’oscurità tagliata dai fari di qualche auto i cui proprietari decidono di muoversi ora.

E con essa, piano piano, sulla montagna che le due giorni ha sentito urla e cori in tutte le lingue d’Europa e del Mondo, scende infine il silenzio.

Venerdì 15 luglio. Sera. Mende.

Seguire il Tour de France non significa limitarsi semplicemente ad osservare ed applaudire gli Eroi in bicicletta.

Significa anche, nei giorni in cui non sei “sulla corsa” immergerti in quella che potrei definire la “Francia profonda”, quella che ha molto a che vedere con i lustrini per noi arcinoti di Parigi, o di qualche località turistica esclusiva della Costa Azzurra o delle Alpi.

Percorri col tuo camperino un serpentone a due corsie che si inerpica sulle montagne e attraversa boschi di querce e di castagni. Che diventano abeti più in alto. Che diventano platani lungo i viali alberati delle cittadine che ti capita di attraversare passando attraverso i dipartimenti dell’Isère,della Drôme, dell’Ardeche, sino a giungere in Lozère dove adesso mi trovo in queste giornate di caldo allucinante.

Attraversi fiumi prosciugati dalla siccità.

Passi in centinaia di villaggi, le case ora grige, ora marroncine, ora ocra con le persiane colorate.

Osservi la gente seduta all’ombra di qualche bar che beve una bibita e si fa aria per proteggersi dal sole.

Guardi le loro facce, non tanto diverse da quelle dei contadini delle tue parti.

Fino ad arrivare a destinazione. Sederti a gustare qualche piatto tipico della zona a base di patate, formaggi e funghi. A bere una birra o un bicchiere di rosè.

Fotografare qualche spunto che lascia capire quanto accadrà il giorno dopo, quando sulle strade che appaiono tranquille arriverà la baraonda del Tour.

E tu che sei lì per la corsa, ma oggi ti sei preso una giornata “libera”, non puoi fare altri che metterti lì, seduto da qualche parte: in attesa che arrivi domani, e con esso il Tour e con esso la Festa.

Sabato 16 luglio 2022. Sera. Mende.

Nella mia ahimé non breve vita ho seguito una trentina di Giri e altrettanti Tour de France. E posso dire che mai mi era capitato di vedere i corridori sfatti come mi è accaduto oggi sulla salita finale di Mende, molto dura ma anche piuttosto breve.

Perfino noi suiveurs abbiamo rischiato di collassare per via del caldo atroce solo per il fatto di stare lì, fermi, lungo la strada.

Figuriamoci gli Eroi del pedale, costretti a uno sforzo immane in condizioni veramente complicate.

Chi cerca di far paragoni in termini di durezza tra Giro e Tour, dovrebbe tenere conto dell’effetto che “la chaleur” esercita sul fisico dei corridori e che, in giornate come oggi, deve risultare davvero devastante.

Lunedì 18 luglio 2022. Sera. Peyragudes.

Arrivano. Arrivano ora che il sole sta per tramontare. Sono arrivati oggi pomeriggio come noi, in questa giornata di caldo bestiale. Arriveranno nella notte e per tutta la giornata di domani.

Mi piace stare lì ad osservarli, che controllano il territorio, lo delimitano, alzano le loro bandiere dai mille colori.

Si preparano la cena. Attendono la notte tra questi meravigliosi picchi in cui per ora l’unico rumore è quello dei campanacci delle mucche, lassù sul Colle.

Domani sarà ancora una giornata di quiete e di grande attesa.

Dopodomani, invece, sarà IL GIORNO DEDICATO AGLI EROI. Quello che la gente qui attende da giorni. Da settimane. Forse da mesi.

Quello di cui da mesi parla con gli amici ed i colleghi.

Quello di cui parlerà per chissà quanto tempo ancora.

Quello da portarsi dentro nei ricordi e nel cuore per sempre.

E intanto continuano ad arrivare.

A sistemarsi.

E ad attendere.

Sono loro: IL POPOLO DEL CICLISMO.

Sono loro: IL TOUR DE FRANCE.

E per quanto possa contare il mio giudizio di suiveur non c’è nulla di umanamente più bello di loro.

Che arrivano.

Continuano ad arrivare.

E arriveranno ancora. Ancora. Ancora.

Fino a che non giungerà IL GIORNO.

Il loro giorno. IL NOSTRO.

Martedì 19 luglio. Sera. Peyragudes.

Si sente naturalmente parlare Francese.

Poi Spagnolo, Basco, Catalano (ah quanto somiglia all’Italiano a livello di intonazione, e quanto è simile al Patois occitano delle mie valli).

Poi un po’ di Portoghese, di Tedesco, di Nederlandese, di Sloveno, di Norvegese, di Danese.

In Italiano? Solo qui, in questo camperino nascosto tra quelli più grandi.

E devo dire che trovo abbastanza “esaltante” questa sorta di “unicità”.

Questo esserci non per qualcuno in particolare, ma unicamente (e dici poco) per l’Evento, per il Tour, per il Ciclismo.

Insomma per un atto di Amore purissimo verso questo Sport meraviglioso.

A prescindere dai protagonisti e dalle bandiere.

Sempre e comunque.

Qui.

Mercoledì 20 luglio 2022. Sera. Peyragudes.

I colori, i cori, i canti, la festa meravigliosa di un popolo, quello Basco: questo, al di là del fatto tecnico, mi resterà della meravigliosa giornata di oggi.

Giovedì 21 luglio 2022. Mattina. Hautacam.

Fabio Jakobsen, nella tappa di ieri, è arrivato per 16 secondi entro il tempo massimo, ed è stato atteso ed applaudito dai suoi compagni come se avesse vinto la tappa.

Che bello il ciclismo.

Giovedì 21 luglio. Sera. Hautacam.

“Collega, io ti stimo e ti rispetto come campione e come ragazzo, per questo se tu cadi io non solo non infierisco ma ti aspetto. Poi però, visto che ti sei rialzato e dato che non siamo alle giostre, ma ci giochiamo uno dei titoli sportivi più importanti che esistano, io torno a fare il mio lavoro, quello per cui mi pagano anche bene, e, non appena vi sono le condizioni “normali di gara”, ti attacco, ti stacco e ti batto senza pietà e senza attenuanti”.

Questo deve aver pensato Jonas Vingegaard oggi durante l’ultima tappa di montagna di questo Tour.

Questo probabilmente avrei pensato e fatto pure io.

Chapeau Jonas!

(Andrea Neri)

Credo che molti di noi abbiano, qui sopra o nella vita reale, un amico come Walter (o come Andrea), che incarna, quasi h24 ,la passione per le due ruote, narrandone le storie come solo un innamorato di questo sport sa fare.

Nel giro di 24 ore, con queste due foto che lui ci ha raccolto sul Suo diario e che racchiudono momenti di una poesia infinita, la corsa in giallo ci ha regalato due capitoli che vanno oltre il concetto di competizione e agonismo. Lasciano alla storia del Tour due capitoli da tramandare alle future generazioni.

Nella prima #Jonas, accortosi della caduta del rivale, #Tadej, si gira per aspettarlo, perchè la nobiltà nello sport deve valere più di un podio, ghermito solo per una scivolata. La foto ritrae la stretta di mano del secondo al primo che vale più di qualsiasi record del mondo.

Nella seconda #Fabio, distrutto dalla fatica, arriva sul traguardo a soli 13 secondi dal tempo massimo, mentre la sua squadra (la #Quickstep) lo aspetta sul traguardo, perché un compagno non si lascia mai solo soprattutto quando è in forte difficoltà.

E a Walter, cantore appassionato di questo sport, dico grazie: sono persone come lui che rappresentano al meglio questi sport poco mainstream, ma molto popolari, che fanno della fatica la ragione del loro pedalare.

Allez Walter et merci beaucoup!!!

(Maria Rita Ferrara)

En attendant il tecnico della lavastoviglie ( i tecnici sono come noi pensionati: senza orari), ho visto la tappa pirenaica del Tour de France.

Ho fatto un vago tifo per Pogacar ( se non tifo almeno un po’ non mi diverto) che, ovviamente, ha perso.

Di questo Tour che ho seguito pochissimo, mi sono piaciuti molto i tifosi, quelli dei camper sulle montagne, accampati due giorni prima e che regalano lo spettacolo unico al mondo di ciclisti professionisti assaliti da una folla che li sommerge.

Ho visto il mio amico Walter Panero, dalle Alpi ai Pirenei con il camper affittato. Bellissimo.

E poi questa scena: Pogacar caduto, atteso dalla maglia gialla che voleva vincere giocando alla pari, a Hautacam.

Gesti che esistono solo nel ciclismo, etica della fatica condivisa, della sorte comune di chi scala montagne e si butta in discesa a tomba aperta.

Riuniti, si stringono la mano. Pogacar ringrazia.

Il Tour de France finisce qua. Bellissimo.

Domenica 24 luglio. Mattina. Fenils.

L’emozione di vedere per la prima volta il Van e di guidarlo.

Imparare piano piano ad usarlo.

Il viaggio andata e ritorno per i Kiss.

I sentieri ripidi del Col de Granon.

La conoscenza fatta con Federico Arena , cuore granata vero e non Effecista, e la sua banda che sicuramente avrò occasione di incontrare nuovamente sulla strada.

La fuga per recuperare il mezzo velocemente: si deve salire sull’Alpe d’Huez e alle 20.00 chiudono la strada ‘sti maledetti.

L’emozione di ripercorrere quei tornanti tanti anni dopo.

Trovare posto per il camper su in cima.

Lo scambio di vino e di salami con i vicini francesi.

La dodicesima volta all’Alpe proprio là dove si immaginava di volerla vivere. Ma che caldo! Che sudata su quel sentiero!

La serata trascorsa lassù dopo la tappa, mentre la maggioranza scende e tu hai il privilegio di restare.

La sveglia all’alba la mattina dopo perché al paese sotto parte la tappa e alle 9,30 chiudono la strada, maledetti!

I tornanti con i nomi dei corridori, che ricordi quasi tutti.

La coda verso Grenoble.

Il viaggio per Mende tra boschi di querce, di castagne e di abeti, fiumi e villaggi color grigio, marrone e ocra.

I ricordi che mi legano a Mende.

L’appartamento di Mende.

La cena sulla piazza della Cattedrale come dodici anni fa.

La riparazione del van col nastro adesivo.

La salita di Mende.

La strada gialla.

Fare conoscenza con Milan, dodicenne di Sète che canticchia “Bella Ciao”, ama l’Italia, la pizza e Genova.

La chaleur, mon Dieux la chaleur!

La spiaggia di Narbonne.

La nuotata fino alla boa, solo io e te.

La corsa vista sul cellulare sulla spiaggia.

Le zanzare di Narbonne Plage e tutti chiusi in camper.

Il viaggio dal mare ai monti.

Il Mur de Peguère “interdit au public”. Putain!

Si va direttamente a Peyragudes!

Che bello lassù.

Il parcheggio a pagamento di Peyragudes dove ti fanno pagare anche le notti in cui non stai.

I vicini di camper gentili che ti fanno vedere la corsa mentre tu cristoni perché il cellulare non prende.

Il cielo stellato.

Lo scampanellio delle mucche di notte.

Il camioncino della Carrefour che porta in altura ogni genere alimentare.

Il temporale.

La gente che continua a salire in auto e in camper.

La nebbia la mattina della corsa.

I cori dei tifosi baschi.

Il ragazzo basco che fa cadere a terra il tifoso di Pogačar con la birra in mano.

Il rumore della strada. Forte, fortissimo.

La corsa verso Hautacam.

La strada già chiusa.

Il campeggio lungo la strada.

L’illusione di poter salire il giorno dopo.

L’incontro con la famiglia di suiveurs genovesi.

La stretta di mano.

La seconda botta di Vingegaard.

L’attesa di quasi tre ore, bloccati in strada.

La “signorata” in albergo.

La carta di credito, somaro che non sei altro.

Sempre bella, Rocamadour!

Mi voglio piazzare lungo la strada, e invece no!

Il prato della crono.

Il vicino dotato solo di moto e tenda.

La lunga giornata della cronometro.

La difesa del posto attaccato alla transenna.

Non ci si schioda dai 400 metri!

Madonna che caldo sempre!

Ci vogliono ciulare i posti, si attaccano.

Vince Ganna, e invece no, ancora Van Aert!

La scappatoia.

La notte nell’area di servizio.

I mulini a vento.

E poi come dimenticare la Carovana, le lunghe attese, il tetto che si alza, la roba da spostare, i sedili che si abbassano per creare un letto, i sacchi a pelo o i sacchi lenzuolo a seconda del clima, le pile, le sedie e il tavolino da campeggio, la doccia artigianale, la cucinotta,il gazebo , le Madeleine al cioccolato la mattina, i Topolini di Paoletta. E sicuramente dimentico qualcosa.

Il mio ventottesimo Tour finisce qui, esattamente dove era cominciato circa due settimane fa. Quello del 2022 è stato a detta di tutti un Tour meraviglioso.

Per me anche di più.

Grazie a chi ha avuto la pazienza di seguirmi fin qui.

Alla prossima!

IL GIRO A CASA TUA

(foto Walter Panero)

Il Giro a casa tua è, prima di tutto, la grande emozione che provi quando, mesi prima, in autunno, vieni a sapere che in quel tal giorno di maggio esso arriverà a casa tua.

E cominci a pensare a come organizzarti. E cominci a studiare il percorso: chissà dove arriveranno? Chissà dove passeranno esattamente? Chissà…

Il Giro a casa tua è l’attesa dei giorni precedenti. I giornali che ne parlano. La gente che comincia a discorrerne a volte con curiosità, a volte con gioia, a volte con disappunto.

“Ma dove passano esattamente?” ti chiedono come se tu fossi quello che sa tutto.

E ancora: “A che ora chiudono le strade? Come faccio a tornare a casa?”.

Il Giro a casa tua è la città che inizia a tingersi pian piano di rosa. Rosa le fontane. Rosa le bandiere nelle piazze. Rosa le vetrine nei negozi.

Il Giro a casa tua sono le strade chiuse al traffico. Il mondo che di solito corre costretto a rallentare.

Il Giro a casa tua sono, perché no, le polemiche (un po’ assurde e un po’ ridicole) della vigilia portate avanti da chi, proprio quel giorno, quel giorno su trecentosessantacinque, o magari anche su duemilacinquecento, ha qualcosa di inderogabile e super urgente da fare: le urgenze esistono, ci mancherebbe altro, ma per molti sembra sia diventato urgente perfino portare il cane a fare pipì dall’altro lato della città.

Il Giro a casa tua sono i luoghi in cui passi tutti i giorni, in auto, in moto, con i mezzi, a piedi o perfino in bici che assumono una veste diversa e colorata.

E’ la gente che, in silenzio o facendo rumore, quasi sempre col sorriso, si avvia verso la strada cercando di scegliere il posto migliore in cui vedere la corsa. Sono le scolaresche colorate. Sono i bambini accompagnati dai genitori. Sono gli adulti che si son presi ferie e si muovono con calma e quelli che, trafelati, escono dal lavoro, e si precipitano a vedere il Giro. Che arriva, giustappunto, a casa loro, e proprio non lo si può perdere.

E poco importa, a ben vedere, chi vince la tappa e chi sono il leaders della classifica generale. Poco importa se si è riconosciuto o meno qualche corridore in corsa. Poco importa, in definitiva, se si è veramente appassionati, oppure frequentatori saltuari di questo sport.

Quello che importa è esserci. E’ poterlo raccontare. Agli amici. Sui social. Il giorno dopo ai colleghi.

La festa. I colori. L’atmosfera unica.

Raccontare quanto sia stato bello ed emozionante il giorno in cui il Giro è venuto a trovarti proprio qui, in casa tua.

Un’emozione che si annuncia per lungo tempo, che arriva velocemente, che passa repentinamente.

Lasciandoti sempre un senso di amarezza, quella che si prova quando le cose belle finiscono.

Ed è allora che cominci a chiederti quasi subito: quanto tempo dovrò aspettare ancora perché il Giro torni nuovamente qui, proprio a casa mia?

Un anno? Due? Cinque? Dieci?

Quanto tempo dovrò aspettare ancora, maledizione?

Quanto tempo dovrò aspettare per poter rivivere una giornata così?

Post scriptum: Per chi va in strada non sarà importante chi abbia vinto, ma il fatto che sul traguardo di Via XX Settembre in Genova oggi il primo a tagliare il traguardo sia stato Stefano Oldani di Milano, Lombardia, Italia ha reso per quasi tutti i presenti questa giornata ancora più bella ed indimenticabile di quanto, in ogni caso, sarebbe stata. Avanti così, ragazzi miei!

E OGGI HO SCRITTO LA STORIA

Me ne accorgo quasi subito. Torno indietro. Spingo come un pazzo sui pedali. Rientro in fretta in gruppo.

Maledizione ho sbagliato strada! Eppure sembrava tutto chiaro. Invece no. Io ho preso di qua e gli altri si sono diretti nella direzione opposta. Quella giusta. Quella diversa dalla mia.

C’è il mio amico Pozzo che tira: un mito con i suoi quasi quarant’anni. Chissà cosa farò io, dove sarò iquando avrò la sua età. Il Pozzo e i miei compagni che lavorano. Per me che, in un certo senso, in tanti sensi, mi sento l’ultimo arrivato. In questa squadra. In questo ambiente.

Eccolo là Mathieu. Come è bello. Come è grosso. Come è forte. Il più forte tra noi, almeno così mi pare. Imbattibile? Forse. O forse no. Lo sapremo tra poco.

Mancano poche centinaia di metri di questa tappa durissima. Manca poco al momento in cui….

DEVO PARTIRE! E parto! Un solo scatto secco, deciso. Uno scatto che non dovrebbe lasciare speranza a nessuno. Almeno penso. Ma Mathieu è forte. Mathieu, che pure avrebbe dovuto aspettarsi il mio scatto, sembra un po’ sorpreso. Ci mette qualche secondo prima di reagire. Ma poi lo fa. Lo sento dietro di me che si dimena sulla sua bici. Lo vedo con la coda dell’occhio. Che avanza. Che risale. Che mi affianca. E avanza. Avanza. Ormai è al mio fianco, o almeno così mi sembra. Ora mi supera, penso. D’altra parte è lui il più forte tra tutti noi. Il più potente. Il più esperto.

Ma io non mi arrendo. Non mi sono mai arreso, fin da quando ero bambino. Altrimenti non sarei qui, mi dico. Continuo a mulinare sui miei pedali. Spingo. Spingo. Spingo con tutte le forze che ho. E anche di più. Finché non accade l’impensabile. Mathieu, il grande Van der Poel, figlio e nipote di campioni, sembra disunirsi, si dimena, scuote la testa, si rialza, quasi smette di pedalare.

E mentre io, figlio dell’Africa, volo verso quel traguardo laggiù, mi volto a guardare Mathieu. E lo vedo alzare il pollice.

“Complimenti fratello, oggi è tutta tua!” sembra voler dire e sicuramente pensa.

Lo guardo ancora per un attimo. Gli sorrido come per ringraziarlo. E alzo le braccia al cielo per godermi il trionfo.

Applausi. Urla. Gente che scandisce il mio nome. Colleghi, fotografi, giornalisti e persone che non so minimamente chi siano che arrivano per complimentarsi con me. Per abbracciarmi.

Gente che si commuove.

Per me.

Tutto questo per me.

Per me che ho ventidue anni, sono nato ad Asmara in Eritrea, ho vissuto a Lucca e adesso abito nella Repubblica di San Marino con una moglie ed una bimba piccola.

Per me che mi chiamo Biniam Girmay.

E oggi ho scritto la Storia del Giro d’Italia.

Del ciclismo.

Dello sport.

E oggi ho scritto la Storia.

Punto e basta.

IL CAMPIONE DELLA MIA VITA

(foto Walter Panero, Colle della Lombarda, 28 maggio 2016)

“Io dico che quello buono non è lui, ma il Siciliano”.

Doveva essere il 2007, quando dalla bocca di colui che adesso, quindici anni dopo, pestella su questa tastiera, uscì questa frase, o una simile. Mi riferivo, naturalmente, a qualche personaggio di passaggio che in quel momento, i media sportivi e la ggente descrivevano come il campione del futuro, quello che ci avrebbe fatto rivivere le emozioni regalateci qualche anno prima dal Pirata di Cesenatico.

Non dovetti attendere molto per avere la prova che quella volta, differentemente da altre (penso ad esempio a Popovych o a Dumoulin) non mi ero sbagliato: presto lo avrei visto sfrecciare in maglia bianca su qualche passo alpino del Tour. Un po’ più tardi, ma non molto, lo avrei visto in maglia “roja” dominare la Vuelta, la prima delle grandi corse a tappe da lui vinte.

Ma la mia mente va soprattutto alle volte, tante volte, che con questi occhi lo vidi passare sulla strada, e vincere. Tanto.

Va alla Polsa in quella giornata di caldo e sole che poi divenne nubifragio. E neve il giorno dopo.

E ancora neve sulle Tre Cime di Lavaredo, quando per fotografarti in rosa rischiai di vedere la mia reflex persa per sempre.

Era il 2013. L’anno del Mondiale di Firenze, che poteva, anzi forse doveva, essere tuo. E invece niente. Quanta pioggia, Enzo, anche quel giorno.

Va al 2014. Alle scritte gialle sulla salita che porta a Chamrousse (ah quante volte ho scritto sull’asfalto il tuo nome con la vernice gialla o rosa!). Agli sfottò dei Francesi. Alla tua vittoria in maglia gialla. Va a quel viaggio matto e disperatissimo a Parigi: partenza la mattina della domenica e rientro il giorno dopo. Alle gambe che tremano per l’emozione nel vederti sbucare sul lungo Senna, scortato dai tuoi e in maglia gialla. Va all’Inno sui Campi Elisi. Va all’Italiano di Francia di settanta e passa anni che non riusciva a trattenere le lacrime di commozione. E a suo figlio, incazzato come da canzone (“Lui è Francese, capisci?”mi confidò suo padre). A Parigi! A Parigi! Lo avevo detto che, nel caso in cui tu…, io sarei andato a Parigi! Detto….fatto!

Va a quella volta a Como. Anche lì pioveva forte la mattina, quando ti vidi trionfare nel tuo primo Lombardia.

Va a quel Giro che sembrava, anzi era, perso. E che invece tu iniziasti a vincere proprio quando sulla strada arrivai io: e fu Risoul, e fu Sant’Anna di Vinadio, e fu Torino! Era il 2016.

Va a quella incredibile tappa dello Stelvio in cui accadde di tutto: la maglia rosa Dumoulin che si ferma a bordo strada per un bisognino, e tu che voli verso il trionfo a Bormio.

Va alle mie gambe tremanti, al mio cuore in affanno, al mio stomaco in subbuglio quando ti vidi sfrecciare da solo in Via Roma. Forse la tua vittoria più bella. Perché totalmente inattesa. Perché assolutamente fuori da ciò che questo umile suiveur aveva fino a quel momento reputato possibile. Era il 2018. Era la Milano-Sanremo.

Va a quella maledetta caduta all’Alpe d’Huez in quello stesso anno. Maledetti restringimenti della strada! Maledetti fumogeni! Maledette macchine fotografiche! Maledetto me che, guardando il maxi schermo, ti vidi a terra e mi misi ad urlare: “Noooooooooo Enzoooooo!”. Ah quante volte devo aver gridato il tuo nome in questi anni! Avresti potuto vincere quel Tour? Non lo sapremo mai.

Va a quella volta a Val Thorens nel 2019. Nubifragio al mattino. Susseguirsi di voci che parlano di tappa cancellata. Ma si fece ugualmente, solo più corta. Pronti, via. Tu in fuga. Tu che mi sfrecci davanti a velocità supersonica. Tu che vinci. Ancora una volta davanti ai miei occhi.

Allora non potevo sapere che quella sarebbe stata l’ultima volta che ti avrei visto vincere. Finora.

Tu che, solo un paio di giorni prima, quando ti urlai qualcosa come “Sei il migliore!” mi guardasti con un misto di stupore e rassegnazione, come a voler dire: “Ok non esageriamo. Forse lo sono stato in passato, ma adesso…”. Invece lo eri ancora. Invece, per certi versi, lo sei ancora.

Oggi, a Messina, nella tua città, tu hai rotto il tuo silenzio che personalmente ho sempre trovato meraviglioso, per dire a tutti noi che tutto questo sta per finire. Che questo sarà il tuo ultimo Giro d’Italia. Che il prossimo anno non potremo più urlare il tuo nome lungo la strada. Non potremo più scriverlo con la vernice rosa o gialla. Finito. Finì. Finished. Fertig.

Basta. Si chiude qui.

Lo hai detto tra le lacrime.

Tue. Della tua famiglia. Dei tuoi colleghi. Degli addetti ai lavori.

E, per quanto te ne possa importare, anche mie.

Eh sì perché tu, caro Vincenzo Nibali, sei stato e sei il Campione che in assoluto, in tanti anni trascorsi lungo la strada, considero più mio.

E qualsiasi cosa accada resterai sempre e per sempre IL MIO CAMPIONE.

IL CAMPIONE DELLA MIA VITA!